Lo stile di vita di un hacker: le sue abitudini ed i suoi scopi… I corsari del web sono spesso spinti da motivazioni ideologiche e fanno parte di gruppi come Anonymous.
«Tango down». Due parole senza alcun senso per i profani, una firma inconfondibile per gli hacktivist, presa in prestito dal gergo militare, che sta ad indicare il successo di un attacco informatico.
Sappiamo effettivamente molto poco sullo stile di vita di un hacker: le sue abitudini ed i suoi scopi sono spesso un mistero per chi non è ferrato in materia d’informatica. Lo stesso termine “hacktivist“, unione delle parole “hacker” e “activism”, è poco noto ai non addetti ai lavori. Nell’immaginario comune l’hacker è ancora l’individuo emarginato e sociopatico che dalla sua stanza penetra nei sistemi di sicurezza di grandi aziende ed enti governativi allo scopo di sottrarre denaro o dati sensibili. Nulla di più lontano dalla realtà.
Perché se da una parte è tristemente conclamata l’esistenza dei cracker (questo il termine che designa i tipici cybercriminali), l’hacker è un individuo che all’opposto è guidato in tutto e per tutto dall’etica, come recita la stessa definizione di Wikipedia: “un hacker è una persona che si impegna nell’affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte, non limitatamente ai suoi ambiti d’interesse (che di solito comprendono l’informatica o l’ingegneria elettronica), ma in tutti gli aspetti della sua vita.“
Gli hacker individuali si dividono tra grey-hat, spinti esclusivamente dal desiderio di penetrare un sistema, e white-hat, che collaborano con aziende o forze dell’ordine per fermare le intrusioni informatiche.
I pirati che occupano l’area grigia sono anche definiti ethical hacker: la loro specialità sta nell’individuare falle di programmi e sistemi, compresi i social network. I più competenti in materia si forgiano del nome di QPS (Quiet, paranoid, skilled hacker): creano da soli il software d’attacco senza lasciare tracce e non sono spinti da motivi economici, bensì dalla perenne sfida che l’informatica lancia loro.
I pirati bianchi, invece, collaborano con società ed enti governativi, testando i sistemi per scoprire le vulnerabilità, e vengono spesso assoldati in operazioni online per combattere il cybercrimine.
Fra gli hacker individuali il più temibile è indubbiamente il cyber warrior, un informatico che solitamente agisce su commissione percependo una retribuzione per attaccare specifici bersagli. I corsari del web sono spesso spinti da motivazioni ideologiche e fanno parte di gruppi come Anonymous. Pare addirittura che ultimamente sul web si sta diffondendo la minaccia del ransomware, un attacco informatico con richiesta di riscatto in denaro per il ripristino dei sistemi colpiti.
Ma gli hacker non sempre agiscono da soli: nell’ambito della filosofia hacktivist, molti hacker si riuniscono per trasformare l’azione diretta tradizionale nel suo equivalente elettronico. Ecco che allora le manifestazioni in piazza si traducono nel netstrike, il corteo telematico; l’occupazione di stabili in disuso, nel cybersquatting, l’appropriazione di un dominio rispondente a persone o marchi famosi allo scopo di rivenderlo a cifre esorbitanti; il volantinaggio all’angolo delle strade diventa un invio massivo di e-mail di partecipazione e di protesta e il banchetto delle petizioni è soppiantato dalla petizione on line. I tazebao scritti a mano diventano pagine web e le scritte sui muri e i graffiti sono sostituiti dal defacciamento temporaneo di siti web. In omaggio all’etica primigenia dell’hacking, gli hacktivisti mettono sempre a disposizione di chiunque risorse informative e strumenti di comunicazione, per non contravvenire mai al principio che vede il web libero ed accessibile a chiunque (il loro utopistico proposito è proprio quello di eliminare ogni sorta di barriera e rendere l’esperienza online alla portata di tutti).
Le pratiche hacktivist quasi sempre si concretizzano nella realizzazione di server indipendenti e autogestiti mirati ad offrire un ampio spettro di servizi, ad esempio mailing list, spazi web, ftp server, circuiti di peer to peer, archivi di video e foto digitali. L’hacking è dunque ben più di una mera scorribanda online da parte di teppisti senza scrupoli: si può parlare, indubbiamente e concretamente, di una filosofia del terzo millennio. E il mondo dell’informatica è da sempre nelle mani degli hacker. Che lo distruggono e al contempo rivoluzionano.
(fonte: http://www.mycryptodata.com/quando-lhacking-diventa-filosofia-piccolo-dizionario-dellhacktivism)